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Paul Klee e gli Angeli PDF Stampa E-mail

Paul Klee e gli AngeliPaul Klee (1879-1940), pittore di origine svizzera, rappresenta, insieme a Wassily Kandinskij, l’artista che ha dato il maggior contributo ad una nuova arte fondata su canoni astratti. Figlio di un insegnante di musica, frequentò le scuole a Berna. Iscrittosi all’Accademia di Monaco, seguì le lezioni di F. von Stuck (1898-1900), nel cui ambiente assimilò i principi dello Judendstil. Al 1901-02 risale il primo viaggio (compiuto con lo scultore svizzero H. Haller) in Italia, sul quale l’artista lasciò acute osservazioni e giudizi nelle lettere indirizzate ai famigliari e nei  Diari (1898-1918). Il suo lungo periodo di formazione continuò nei successivi anni bernesi, dedicati insieme alla musica, alla grafica e alla lettura di classici; in questo periodo (1902-06) ebbe occasione di vedere opere di W. Blake, G. Klimit, Goya e durante un soggiorno a Parigi, di Leonardo e Rembrandt. Primo importante risultato del suo lavoro furono una serie di acqueforti  (Vergine sull’albero, 1903; Attore II, 1904) e un gruppo di 26 ... 

... acquerelli su vetro (Strada con carro, 1907, Cincinnati, F. Laurens Coll.). Soltanto nel 1908 K. Poté vedere opere di V. Van Gogh, P. Cézannr (il maestro per eccellenza) e, in seguito, di H. Matisse e di altri esponenti della scuola francese.

La sua indagine parallela sulla grafica e sul colore continuò con una serie di disegni, tra i quali particolarmente  impressionanti per intensità psicologica e deformazione espressiva, le illustrazioni per il Candide di Voltarire (Il lève le voile d’une main timide, 1911, Berna, Fondazione Klee). Nel 1911 entrò in rapporto con gli artisti del Blaue Reiter, con i quali espose l’anno successivo alla seconda mostra berlinese del gruppo; a Parigi frequentò R. Delaunay (del quale tradurrà nel 1913 un articolo sul colore per Der Sturm) e l’ambiente cubista, spostando quindi la propria ricerca da un’analisi introspettiva sui valori psicologici delle forme verso problemi di luce, colore, movimento e temporalità, oltre che di strutturazione dell’immagine. Durante l’importantissimo viaggio con due amici pittori, L. Moillet e A. Macke, in Tunisia, scoprì definitivamente il colore: “Questo è il momento più felice della vita: il colore e io siamo una cosa sola. Sono pittore”. (Hammamet con moschea, 1914, Parigi, Coll. Berggruen).

A parte questi viaggi, l’artista condusse una vita raccolta, di intenso lavoro, che gli consentì di lasciare una produzione molto vasta, in buona parte conservata alla Fondazione di Berna a lui intitolata (si tratta di numerosi dipinti e incisioni e di 3000 disegni). L’ingresso di K. Al Bauhaus di Weimar nel 1920 rafforzò il suo metodo di analisi, consentendogli approfondimenti teorici, in relazione ai modi di costruzione dell’immagine (ovvero di combinazioni dei segni, delle superfici, dello spazio e della scala cromatica), che non entrarono mai in urto con la decisiva componente fantastico- inventiva dei suoi dipinti. Le sue lezioni di pittura al Bauhaus, si tenevano parallelamente a quelle di Kandinskij, al quale era legato da grande amicizia; con lui e O. Schlemmer partecipò all’esposizione e all’allestimento degli spettacoli che nel 1923 si svolsero nella sede della scuola. Nel 1924, con Kandinskij, L. Feiniger e A. Jawlensky, diede vita al gruppo dei Blaue Vier, i Quattro Azzurri.

Le numerose opere di questo periodo sono state divise secondo i temi, che tuttavia riportano sempre al suo modo specifico di intendere il reale e di tradurlo in una parallela ed equivalente dimensione costruita attraverso la combinazione di segni e colori, fondamentalmente derivata dall’osservazione del “funzionamento” del mondo naturale. Si tratta di immagini incantate e ricche di mistero, tutte di piccolo formato, in cui le zone di colore, spesso molto luminose, ordinate secondo strutture astratte, si accompagnano a sottili segni grafici (Villa R., 1919, Monaco, Lenbachlaus, Teatro botanico, 1924, Monaco, Lenbachlaus). I dipinti raggiungono spesso una grande complessità tecnica, che rispecchia un alto grado di libertà nella scelta sia dei motivi e dei materiali, sia dei supporti, sia dei pigmenti colorati (Senecio, 1922, Basilea, Offentliche Kunstsammulung, L’avventura di una fanciulla, 1922, Londra, Tate Gallery; Teatro di marionette, 1923, Berna, Fondazione Klee).

Trasferitosi nel 1925 a Dessau, nella nuova sede del Bauhaus, riprese le sue considerazioni teoriche, e le espose in forma sistematica in appunti e scritti che per la maggior parte furono pubblicati soltanto dopo la sua morte. Il programma pedagogico (Quaderno di schizzi pedagogici, 1925) fu alla base delle lezioni da lui tenute in questi anni (Teoria della forma e della  figurazione, 1956), che con la conferenza di Jena e i ricordati Diari 1898-1918 (1957) costituiscono un corpus di scritti di estremo interesse per cogliere senso e sistematicità del suo lavoro artistico. Nel 1931, lasciato il Bauhaus, divenne professore all’Accademia di Dussenldorf e nel 1933, dopo la condanna nazista dell’”arte degenerata” si trasferì a Berna.

La malattia che lo affliggeva (sclerodermia) rallentò il ritmo della sua ultima produzione, che acquistò un carattere più drammatico; i grossi segni neri si fanno essenziali e ossessivi  e presentano funebri analogie con sbarre e simboli notturni: Insula Dulcarnara (1938), Povero angelo (1939), Demone (1939), Suonatore di timpano (1940), Moryte e fuoco (1940), tutte a Berna, alla Fondazione Klee; Prigioniero (1940, New York, F. Zimmerman Coll.). Per Klee l’astrattismo è un punto di partenza per rifondare una pittura che rappresenti liberamente il mondo delle forme e delle idee. I suoi interessi lo hanno portato a spaziare molto al di là della sua disciplina, a sapere di filosofia, teologia, poesia, musica e scienze naturali Nella sua ricerca appare sempre costante il problema di capire cosa è la creatività nell’arte. Egli infatti ritiene che quest’ultima si avvicini alla natura non perché la imiti, ma perché riesce ad intuirla ed a riprodurre così le intime leggi della creazione.

Gli ultimi lavori tra circa 9000 opere dell’artista sessantenne, specie quelli su tela di juta e su carta, riflettono un profondo stato di depressione e di angoscia per le vicende della Germania nazista. Tra i disegni su carta vi è la serie di 35 angeli. Curiosamente, però, a ciascuno di essi è attribuito un atteggiamento tipicamente umano. Di conseguenza, non solo incontriamo l’angelo “ancora brutto”, ma anche il “precoce” e lo “smemorato”. In un’occasione l’angelo appare come un buffone di corte sgambettante, oppure è “in una barca” e poi in “crisi” (Crisi di un angelo I). Per stessa definizione di Klee, i suoi angeli sono raffigurati “nella sala d’attesa dei cori angelici”, creatura umane recanti le loro “ultime azioni sulla Terra”, così da poter subito “avere le ali” come gli angeli. Così, essi sono simboli di transizione, che riflettono l’artista stesso, gravemente ammalato avviatosi ormai verso la fine dei suoi giorni per “sclerodermia”, malattia che ha influenzato fortemente forme e composizioni dal 1935. Ma analizziamo alcuni di questi “angeli” più dettagliatamente. “L’Angelo smemorato”, disegno del 1939, ha, come tutta la produzione di Klee, una forte componente ancora figurativa, anche se appare, piuttosto, lo scarabocchio di un  bambino.

E non a caso. Commentando la mostra del Bleue Raiter del 1911 alla Galerie Tannhauser di Monaco, egli dice: “Non dimentichiamo che l’arte, come possiamo constatare, ha le sue origini nei musei etnografici o in casa nostra, nella camera dei bambini (non ridere lettore): anche i bambini possono fare arte (…) più i bambini vengono lasciati a se stessi, più l’arte che producono è ricca di insegnamenti; perché anche qui è già in atto un processo di corruzione: nel caso i bambini si mettano ad assimilare le opere degli adulti, oppure a imitarle”.

Molti artisti hanno osservato con tenerezza la fantasia istintiva dei disegni infantili per cercare di coglierne l’essenza. Le illustrazioni dell’ “Almanacco del Blaue Reiter” confermano tale contiguità. Klee, Mirò, Picasso, Dubuffet o Baj, solo per citare qualche nome tra quelli più spesso ricordati, non disegnano affatto come bambini, piuttosto ci insegnano a vedere e ad apprezzare quello che fanno i bambini quando li si lascia liberi. Questo angioletto con le manine intrecciate, titubanti, e gli occhio rivolti a terra, imbarazzati, tracciano a linea quasi continua, è un angelo, perché è andato oltre la morte, è l’artista stesso, che la attende nella malattia, è il fanciullo, che disegna se stesso.

Non dimentichiamo che l’angelo ha un forte legame col mondo dell’infanzia, quando si è posti sotto la protezione dell’angelo custode, che ci guida lungo tutto il cammino della nostra vita terrena (Matteo che recita: “Guardate dal disprezzare uno di questi piccoli; perché vi dico che gli angeli loro, nei cieli, vedono continuamente la faccia del Padre mio che è nei Cieli” (Mt. 18,10). L’angelo è per Klee ciò che si è stati (il bambino che libera lo spirito con le forme), ciò che si sarà dopo la morte del corpo (un essere libero dalle sofferenze, immagine sfavillante del divino). Paul Klee scriveva spesso sul quadro, o a margine, il titolo dei suoi disegni. Si veda, ad esempio, l’ “Angelo incompleto”, anche questo del 1939, firmato appena sotto la  linea a matita e datato e intitolato sul bordo inferiore del foglio. Quest’angelo, come anche in un’opera precedente, del 1934 (che, però è una pittura su juta e non un semplice disegno su carta) è “in formazione”.

L’artista ce lo mostra proprio con questa connotazione, perché contrapponeva la forma, la sola in grado di rivelare la “Vita”. In questa logica, egli vantava “l’identità dell’opera e del processo della sua elaborazione (l’opera e la sua storia)”. Lo spettatore attento esplora la superficie del quadro “come un animale pascola una prateria” e può entrare in sintonia con il processo della creazione. Quindi, in pratica, l’artista si avvicina a Dio Creatore, quando “crea” i suoi angeli sulla carta. L’angelo in formazione è principio di Vita, una vita nuova dopo il passaggio, ed è proprio con la sofferenza che si plasma la vita eterna. E la sofferenza è forma, come le forme contorte di quest’essere che sta nascendo, morendo nella forma, nascendo per il suo solo essere in divenire incompleto.

L’angelo del 1934 è differente da quello appena trattato: insieme all’Arcangelo, è l’unico che non ha sembianze umane, né animali, né divine. Non ha alcuna forma, si è fatto pura linea, pura geometria, pura idea, puro concetto e pura rappresentazione simbolica di esso. Gli unici riferimenti chiari e precisi sono un cerchio, una croce e un triangolo, tutti e tre rinviati alla sfera a cui è comunque possibile aspirare, la sfera religiosa: la croce è il simbolo della sofferenza e della redenzione di Cristo, il triangolo della Trinità e il cerchio dell’eternità. Si potrebbe pensare che il cerchio alluda qui non solo all’eternità di Dio, ma anche all’eternità del divenire e del trasformarsi, all’inevitabile assenza di u arrivo risolutorio. Questo angelo non può, infatti, fare altro che costantemente tendere, cambiare, camminare, divenire, agognare, auspicare ad essere un angelo puro, divino, incorporeo, privo di qualsiasi specificazione.

Nell’ “Angelo ancora brancolante” troviamo esplicito il tema della morte, rappresentato con un alone nero, dentro il quale l’ “angelo” coi capelli biondi e gli occhi azzurri si muove a tentoni, con un braccio teso in avanti e la testa reclinata, quasi volesse respingere l’ombra che incombe su di lui.

Ne La roccia degli angeli, infine, Klee ci  mostra la possibilità dell’ascesa, della salita. Quattro angeli (è questo l’unico caso in cui compaiono quattro angeli. In tutti gli altri lavori il soggetto è sempre un solo) disposti a piramide occupano lo spazio di quest’opera, l’unica in cui un angelo, anche qui dalle sembianze infantili, è definitivamente sollevato da terra. Non è arrivato, ma è finalmente in volo. Se un insegnamento ci viene dalle opere di questo grande artista, illustratore dell’animo umano, può essere riassunto in due concetti, che egli stesso ha espresso: “ L’arte non riproduce ciò che è visibile, ma rende visibile ciò che non sempre lo è”; “Un solo giorno basta a farci un po’ più grandi oppure, un’altra volta, un po’ più piccoli”.  Secondo Klee, l’artista non può avvicinarsi al creatore senza avvicinarsi a coloro che Egli ama di più (“Lasciate che i bambini vengano a me, e non glielo vietate, perché il Regno di Dio è per chi assomiglia loro. In verità vi dico: chiunque non accoglierà il Regno di Dio come un bambino, non vi entrerà affatto”, (Lc, 18,1617), (Mt, 19,1314). Chi non si farà piccolo, non entrerà nel Regno dei Cieli: anche l’arte contemporanea può spiegarlo.

Don Marcello Stanzione

 
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