Il fascino di MONT SAINT-MICHEL |
Ti si para innanzi da lontano con una dolcezza ed una maestosità inesprimibili. Ne resti incantato e tiri gli occhi e ti protendi in avanti per capire come possa uno spuntone di così rara bellezza emergere tanto possente dalle acque del mare. Poi mano a mano ne distingui le guglie svettanti, la sagoma di un santuario e di massicce costruzioni in pietra; infine ti appare galleggiante sulla marea, ridente di sole e luminoso nello spumeggiare delle onde battenti contro il contorno dell’isola. Ti saluto, Mont Saint-Michel, avvolto in un paesaggio di sabbia, di cielo e mare: saluto la tua abbazia a forma di cittadella, la cui altezza, alla sommità della guglia della basilica, raggiunge circa centosettanta metri. Stava montando la marea, che è una delle più forti della terra, avendo una differenza superiore ai dodici metri tra alta e bassa ed è perciò un pericolo per il pescatore di gamberi o il turista inesperto. Contemplando l’imponente costruzione, la mente riandava agli eremiti che, venuti probabilmente ... ... dall’Irlanda fin dai primi secoli cristiani, vivevano austeri e oranti su quel monte chiamato Tombe, che significa sia altura sia tomba, nutriti dalle premure dei pescatori. Quando un uomo di Dio sentiva gli stimoli della fame, accendeva un fuoco e gli abitanti dei dintorni, vedendo il fumo, salivano lesti la collina con pani e pesci. A volte dell’operazione si incaricava il capo del villaggio, possessore di un robusto asino. Ma un giorno un lupo gigantesco se lo mangiò ed allora Dio stesso intervenne e condannò la bestia feroce ad adempiere la misericordiosa opera di nutrire i suoi servi. Nella leggenda, forse il lupo dagli occhi sanguigni incarnava il demonio o meglio quel Lucifero che aveva osato sfidare la potenza divina trascinando in un oceano di guai prima altri angeli e poi i primi uomini, ma fu vinto da S. Michele, principe della milizia celeste. Mi-ka-el in ebraico significa chi come Dio, e dal paradiso terrestre in poi porta sopra una veste bianca un’armatura e in mano una lancia o una spada fiammeggiante. Ma l’Arcangelo nei momenti di pausa dal combattimento amava riposarsi sulle alture più belle del creato e, come ricompensa dei suoi servizi, ne richiese la proprietà al Padre Eterno. Si era già fatto vedere ed aveva preso possesso di Monte Sant’Angelo, e a Roma di Castel Sant’Angelo trasformato da mausoleo di Adriano in fortezza da Papa Gregorio Magno, il quale, secondo la leggenda, passando in processione durante la peste del 590, vide in cima alla mole l’Arcangelo rinfoderare la spada e quindi porre fine al flagello. Anche in Francia ricorse allo stesso stratagemma. Una notte del 708 apparve ad Oberto, Vescovo di Avranches, cittadina vicinissima al Monte, ordinandogli di consacrare al suo culto l’isolotto roccioso. Oberto, irritato, rifiutò con noia anche la seconda visione, ma alla terza S. Michele si spazientì e conficcò un dito nel cranio dell’incredulo, forandogli la calotta. Moltiplicò poi i prodigi e di persona intervenne ad indicare il luogo dove era stato nascosto con uno stratagemma un toro rubato e, secondo un racconto popolare, segnò il perimetro dell’oratorio da costruirsi seguendo lo spazio calpestato dal toro, mentre seguendo altre leggende la costruzione doveva essere eretta nel terreno lasciato asciutto dalla rugiada mattutina. Se la rugiada aveva un chiaro riferimento alla neve che richiamava il tracciato delle fondamenta della basilica romana di S. Maria Maggiore, il toro rinviava direttamente al Gargano. Si recarono allora alla grotta garganica i messaggeri del prelato e, ricevuti con grande riverenza, data la fede dimostrata verso l’Arcangelo, ne ebbero preziosissime reliquie: un pezzo di mantello rosso indossato dal messo celeste e lasciato cadere all’interno della grotta, ed un frammento dell’altare sul quale aveva poggiato il piede. Accolti con grandi festeggiamenti al loro ritorno, i messi furono testimoni di un evento prodigioso: un cieco al passaggio delle reliquie riebbe la vista e si mise a ringraziare S. Michele. Rientrati al borgo, collocarono parte delle reliquie nella pietra di fondamento, dando subito l’avvio alla costruzione del santuario. I lavori procedevano alacremente sostenuti da interventi visibili del potente Arcangelo. Sulla sommità del Monte si ergeva un monumento megalitico, simile a quelli di Carnac, secondo alcuni utilizzato per il culto del sole come a Stonehenge, saldamente fissato ed inamovibile per l’intervento di Satana. Il Vescovo, illuminato, chiamò un bambino, che, ripieno di forza angelica, allontanò con un semplice tocco del piede il grossissimo masso che ostacolava la continuazione dei lavori, mentre dall’arido pietrame zampillava vivace una sorgente purissima, battezzata fontana miracolosa di Sant’Oberto. Vi giunsero a frotte i monaci, soprattutto i Benedettini, la cui Regola, unendo contemplazione ed azione, bene si adattava alla santificazione personale e all’utilità sociale. Dai religiosi si favorirono e furono diffuse altre leggende che consacrarono il luogo come sacro. Un serpente di smisurata grandezza devasta l’intero territorio circostante il Monte. Inutili risultano sia le ripetute battute di caccia alla bestia del re Elgar come le orazioni dell’Arcivescovo Ivor. Allora i cavalieri decidono un assalto in massa, ma, quando lo avvistano, il serpente giace al suolo morto. Viene dato alle fiamme, ma dentro le ceneri Ivor distingue due oggetti intatti: uno scudo e una spada di forma insolita macchiata dal sangue del mostro. Un Arcangelo e tre santuari La notte seguente Ivor in sogno riceve l’ordine da S. Michele di portare le sacre armi al suo santuario preferito. Nello stesso periodo due canonici armati tentano di partire per l’Italia, pensando al Gargano, ma smarriscono il cammino ed allora riappare S. Michele che impone loro di recare scudo e spada a Mont Saint-Michel. Ancora un racconto utilissimo a simboleggiare la progressiva indipendenza del Monte dal santuario sul Gargano. Un pellegrino italiano, recatosi in Normandia, di nascosto ruba un pezzo di roccia del Monte già sacra all’Arcangelo. Ritorna in Italia, ma, mentre i suoi affari prosperano, i suoi sonni sono tormentati da terribili e mostruosi incubi. Allora due frati, a cui si era aperto, lo consigliano di riportare in Francia il frammento di roccia sacra e rideporlo al primitivo posto sul Monte. Neanche a dirlo ritorna la felicità del cuore. Racconti fabulistici certo, ma con una precisa finalità: l’aumento di prestigio del santuario e la diffusione della sua fama in Italia ed in Europa. L’abbazia infatti crebbe rapidamente in numero di monaci, in ricchezze e potenza. Furono edificate mura possenti, restaurati vecchi sentieri, adibite sale a biblioteca, a scrittoio e restauro del libro, con accanto officine per fabbri, laboratori di falegnameria, carpenteria ed oreficeria. Nel silenzio dei chiostri ritrovavano la pace cavalieri e prìncipi erranti, che poi là sceglievano il luogo di sepoltura donando cospicue doti ed enormi eredità agli abati. Se i duchi normanni di Bretagna erano soliti deporre nelle festività dell’Arcangelo i titoli di proprietà di terre destinate al convento, i contadini trasportavano regolarmente sull’isola, in barca o su carretti nella bassa marea, la parte del raccolto riservato alla Chiesa, cioè la cosiddetta decima, e ne ricevevano in compenso assistenza spirituale e protezione contro i predoni di terra e di mare. Quando al Monte succedeva qualcosa di strano veniva attribuito all’intervento di S. Michele. I monaci annotavano i racconti di fatti prodigiosi, che pellegrini e devoti ripetevano ed ampliavano con il passar dei secoli. Una donna cieca dalla nascita arriva davanti all’icona dell’Arcangelo e improvvisamente riacquista la vista. Un’altra donna aspetta un bambino ed imprudentemente vuole attraversare i banchi di sabbia, mentre il mare si sta alzando. Partorisce sommersa dall’acqua, mentre un candido velo avvolge madre e neonato proteggendoli dall’acqua, sicché i pescatori accorsi la ritrovano sana e salva con il figlioletto oltre sei ore dopo: una croce segnava fino alla Rivoluzione francese il punto del parto. Gli uomini del Medio Evo attribuivano alle reliquie dei martiri e dei santi virtù taumaturgiche. Il vescovo Oberto, per acclamazione divenne Sant’Oberto subito dopo la morte, ma le sue ossa erano introvabili. Una notte, nel più profondo silenzio, una musica di indescrivibile armonia invade l’abbazia. I monaci esterrefatti e salmodianti ne seguono la scia finché arrivano ad un dormitorio isolato e si protendono verso una cassetta da cui proviene quel suono celestiale: la aprono e vi trovano delle ossa e un teschio con un foro: quello fatto dall’Arcangelo sulla testa del fondatore. Tali episodi contribuirono a rendere sempre più sfarzose le festività religiose. L’architettura del Monte ben si prestava a sontuose cerimonie con le sue strade in salita, le grandi scalinate, la spianata e la svettante chiesa. Nelle processioni l’abate vestiva abiti splendidi e riccamente ornati, con la mitra dorata in capo e il pastorale finemente cesellato. Seguivano i religiosi con mantelli ampi e svolazzanti sopra vestiti bianchissimi lunghi e ricamati, portando preziosi reliquiari, vangeli miniati, icone di Santi. Sulle mura e sui bastioni grossi incensieri spandevano all’intorno profumi orientali, mentre capienti brocche lanciavano verso l’alto un fuoco sprizzante vivide fiamme giorno e notte. Dietro, la folla agitava grossi ceri e ad ogni stazione o capitello elevava canti ed invocazioni di soccorso e di ringraziamento. Dei monaci, fatti venire dalle vicine sedi, in piazzette toccate dalla processione e soprattutto dinanzi alla cattedrale rappresentavano scene e personaggi del Primo e del Nuovo Testamento, rinnovando con gestualità espressiva le sacre rappresentazioni. Come segno della visita all’abbazia, i pellegrini riportavano alle proprie case la riproduzione dello stemma abbaziale: un seminato di conchiglie di sabbia sormontato dai gigli di Francia, simbolo della protezione del re sul sacro borgo. Nel XII secolo un religioso-poeta redasse in lingua romanica accessibile al gran pubblico, non in latino la lingua della Chiesa, il Romanzo di Mont Saint-Michel, in cui celebrava la storia dell’abbazia, la vita degli abati e i miracoli dell’Arcangelo. Anche l’accettazione di un novizio era occasione di commoventi cerimonie. Al giovane, in mezzo alla chiesa, venivano rasati i capelli ed impressa la tonsura, simbolo del nuovo stato ecclesiastico. Quindi indossava l’abito monacale tra canti di gioia e baci di pace, mentre al popolo del borgo e ai pescatori venivano concessi giorni di riposo, festivi, rallegrati da banchetti offerti dal convento. A poco a poco però all’austerità conventuale si andò sostituendo un clima alquanto principesco che caratterizzò la vita dell’abate principalmente e dei più stretti collaboratori. Sfarzo e mondanità avvolsero l’abbazia, tanto che vi sostavano cortei di re e di prìncipi, di cardinali e prelati d’alto rango, in un contesto di cerimonie fastose e mondane. Per la strategia della sua posizione e la diceria di ricchezze, il Monte si trasformò in preda agognata da ogni esercito. E durante la guerra dei cento anni (1339-1453) l’abbazia subì assedi ed incendi da parte dell’esercito inglese, ma, secondo i monaci, solo il misterioso e ripetuto intervento dell’Arcangelo impedì agli invasori di impadronirsi dell’abbazia e tale fatto, divulgato colorito di particolari prodigiosi, aumentò a dismisura la devozione micaelica, nonostante si deprecasse che all’interno del borgo la soldataglia normanna l’avesse trasformato in ritrovo di violenze e di vizi. Verso la metà del XIV secolo è degno di passare alla storia un fenomeno strano: i pellegrinaggi dei pastorelli che, consacratisi al culto di S. Michele, ne diffusero la conoscenza salmodiando di città in città il racconto della lotta contro Lucifero, il drago ribelle, ed esaltando gli attributi caratteristici di tale lotta: la spada della vittoria e la bilancia della giustizia. Schiere di bambini dagli 8 ai 13 anni provenienti dai villaggi della Germania, del Belgio e dell’Olanda si riunivano in folti gruppi e marciavano due a due verso la Normandia con alla testa l’effigie di S. Michele. Camminavano giorni e mesi, nutriti dalla carità dei paesi attraversati, e, giunti sulla cima del Monte, offrivano i loro stendardi, pronti alla difesa del culto dell’Arcangelo. Il fatto fu interpretato come segno di malessere e di disordine, ma per altri poteva anche significare un bisogno di pace e di sicurezza, ottenuta mediante il pellegrinaggio purificatore. In tale contesto si colloca anche la missione di S. Giovanna D’Arco (1412-1431) in difesa di valori patri e religiosi. Luigi XI, brutto e sgraziato, devoto fino alla superstizione, limitato d’intelligenza, ma astuto fino alla follia, divenuto re di Francia (1461-1483) costituì i Cavalieri di S. Michele, scelti tra i più rinomati signori del regno e distinguibili per il vestito di tessuto damascato bianco e il cappuccio di velluto rosso. Portavano attorno al collo un collare adorno di conchiglie d’oro e una medaglia con l’Angelo che trionfa sul diavolo e inciso il motto dell’ordine: immensi terror oceani, il terrore dell’immenso oceano. Ideò e fece istallare sul Monte un terribile strumento di tortura, visibile ancor oggi ai visitatori. Una gabbia di legno e ferro attaccata al soffitto ed esposta alle intemperie e all’assalto dei rapaci racchiudeva il traditore del sovrano fino a morte terribile. Intanto l’abbazia venne munita di bastioni e di massicce torri, di feritoie e di guardiole, di cannoni ed armeria: un presidio militare provvedeva ad una costante vigilanza. Tre porte, rinforzate da un fossato, un ponte levatoio ed una saracinesca proteggevano l’ingresso del borgo. Quando il 31 ottobre 1517 Martin Lutero affisse le 95 tesi alla porta del Duomo di Wittemberg, di certo non previde che una delle conseguenze più sanguinose sarebbero state le guerre di religione, che sconvolsero l’Europa ben oltre il XVI secolo, provocando ingenti massacri, e lasciando una scia di odio non ancora del tutto cancellata. Anche Mont Saint-Michel fu trascinato nel vortice di battaglie, massacri e vendette tra cattolici e protestanti. S. Michele con la spada sguainata divenne il protettore dell’ortodossia contro l’eresia luterana e con l’invocazione del suo nome le spade compirono atroci vendette ed orrendi eccidi culminati nella notte del 24 agosto 1572 con la strage degli ugonotti. Numerose volte il Monte fu cinto d’assedio, ma sempre resistette. Si ricorse allora all’inganno. Alcuni soldati protestanti, travestiti da pellegrini, furono lasciati entrare in città ed anzi ben trattati perché offrivano vino ai soldati e cibarie alla popolazione, ma scoperti da un novizio chiedente la carità, furono fatti prigionieri e rinchiusi in una cella-carcere. Una seconda volta un plotone di ugonotti, camuffati da donne e da pescatori, assassinarono le guardie, entrarono nel borgo, ma l’abbazia si difese a ferro e fuoco, lanciando dall’alto pece bollente, sassi, aspettando negli angusti anfratti i militari che stentatamente salivano verso l’alto. Furono tutti catturati, cacciati in celle scure, umide, sottoposti a digiuno e alle penitenze conventuali, obbligati ad ascoltare i canti e le preghiere dei monaci. Per la guardia di tali persone si resero necessari uomini d’arme, scelti dal re tra i grandi dignitari capitani di esercito, che non risiedevano più sul Monte, ma in castelli sfarzosi mantenuti dalle rendite abbaziali. I monaci se ne andarono a vivere nelle grotte sottostanti; poi per breve tempo si insediarono i benedettini Moristi, infine il tutto fu trasformato in prigione detta la Bastiglia dei mari, riempita di nobili ribelli alla corona, di oppositori politici, di delinquenti comuni, mentre i rei di gravissimi delitti erano rinchiusi nella gabbia di ferro ed appesi alle intemperie. L’abbazia stava inesorabilmente crollando, e torri e muri di rinforzo si riversavano quotidianamente nelle acque del mare. La Rivoluzione francese del 1789 scelse il Monte come casa di forzati e condannati a vita. Dopo ogni sommossa o tentativo rivoluzionario mancato, giungevano da Parigi masse di nobili e popolani che, ammassati in lugubri e sudicie celle, attendevano l’ora dell’esecuzione. Napoleone e la Restaurazione poi nulla fecero per ridare splendore all’isolotto solitario, ma solo Napoleone III, sia sotto la spinta del movimento romantico, che ricercava luoghi solitari e fantastici, sia indotto da calcoli politici per ingraziarsi la Chiesa di Francia, decise di sopprimere il penitenziario, ripristinare Mont Saint-Michel come Un Arcangelo e tre santuari luogo di turismo, avviare un centro culturale trasformato nel 1874 in monumento nazionale. La statua che sovrasta lo svettante campanile venne realizzata nel 1897 dallo scultore Emmanuel Frémiet e ben riprende l’iconografia tradizionale dell’Arcangelo guerriero e giusto. Le opere di rifacimento, già iniziate con i prigionieri costretti ai lavori forzati, portarono alla ricostruzione e all’abbellimento dell’abbazia, in cui fecero ritorno i monaci a rianimare la vita culturale e religiosa, ridando al Monte dell’Angelo un’aria di sogno stupefacente ed un richiamo alla contemplazione ed alla pace. Mont Saint-Michel è tra i più famosi complessi monastici e una delle località turistiche più frequentate della Francia. Lo splendido isolotto è unito alla terraferma da una diga lunga 1800 metri, al riparo anche dall’alta marea, sopra la quale corre una strada asfaltata che rende accessibile l’isola da Pontorson. Il cono roccioso è cinto alla base da bastioni poderosi, dentro e sopra i quali giacciono, sistemati a semicerchio, gli edifici del villaggio coronato dalla pittoresca abbazia. Vi si accede attraverso la porta de l’Avancée e, oltrepassata la cinta muraria, si giunge alla merlata porta del Re, fregiata dagli stemmi dell’abbazia e della città. Si prosegue per l’unica spaziosa strada del borgo, la Grande Strada che gira attorno al monte e sale in forte pendenza fiancheggiata da coloriti negozi di souvenirs e dalla chiesa parrocchiale di S. Pietro, contenente una statua di S. Michele in lamina d’argento attorniata da stendardi e bandiere di pellegrini. Si imbocca quindi la Grande Scalinata che si inerpica fino al muraglione merlato trecentesco che, fiancheggiando gli appartamenti abbaziali, sfocia di fronte al fianco sinistro della chiesa. È d’obbligo fermarsi per godere la magnifica vista sul poderoso torrione quadrato della crociera con guglia, alta 74 metri, sormontata dalla statua dell’Arcangelo. Un portale del XII secolo immette nella chiesa romanica coronata da matroneo con un’abside gotica, deambulatorio e cappelle radiali, illuminate dal triforio e da slanciati finestroni. La fuga di finestre del triforio lascia penetrare la luce e l’arte fiammeggiante ne ha fatto un merletto cesellato, mentre le altissime volte del coro creano l’illusione di una foresta di pietre. Sul fianco settentrionale dell’abbazia si presenta la cosiddetta Meraviglia, i cui tre piani di costruzione sembrano scavati entro possenti pilastri e vogliono specificare la gerarchia sociale nel Medioevo. Prima fu edificata l’ala orientale: i poveri ricevevano i viveri al piano inferiore; al secondo piano l’abate riveriva i prìncipi e i potenti nella sala degli Ospiti, infine il refettorio per i monaci, allora il primo gradino della scala sociale. Quest’ultimo è una magnifica costruzione contornata da gallerie su esili ed eleganti colonnine di granitello rosa. Vi spicca il pulpito con l’artistico leggio che portava la voce del lettore all’intera sala, mentre i religiosi, assisi in silenzio al posto assegnato, prendevano i pasti frugali. La parte occidentale della Meraviglia comportava pure tre piani. Il piano più basso accoglieva la cantina e la dispensa, con la possibilità di traghettare i viveri prelevandoli dalla spiaggia mediante una grande ruota. Sopra si stendeva la sala dei Cavalieri, a quattro navate ogivali su bei capitelli a fogliame, con una grande apertura che illuminava l’intero volume. Al piano alto il magnifico chiostro, che si presentava come una costruzione incorniciata da gallerie su linde e gentili colonnine di granitello rosa, disposte in doppia fila ed alternate, con finissime decorazioni marmoree. Attraverso passaggi interni si può ridiscendere al barbacane d’ingresso e visitare le fortificazioni con il percorso del giro di ronda, suggestivo per la visione sul mare liscio o spumeggiante. Con la bassa marea è consentito fare il giro dell’isola a piedi in 30 minuti circa; con l’alta marea il giro è effettuato da barche a motore, passando davanti sia alla cappella di Sant’Oberto, sopraelevata su di un roccione, che alla fontana fortificata, un tempo unica sorgente di acqua dolce, mentre dall’alto continua a dominare, solenne, l’incomparabile visione della Meraviglia. Grazie ai continui lavori di restauro, i visitatori possono oggi riscoprire lo splendore antico dell’abbazia che gli uomini del Medioevo consideravano la Gerusalemme celeste sulla terra, l’immagine stessa del Paradiso. Don Vincenzo Mercante |