IL GRIGIO: IL CANE-ANGELO DI SAN GIOVANNI BOSCO Di don Marcello Stanzione |
Scritto da Amministratore | |
domenica 17 febbraio 2019 | |
San Giovanni Bosco è senza dubbio il solo uomo che ebbe un cane per Angelo custode, od un Angelo che si mascherava da cane ... Quando, alla fine della sua vita, lo si interrogava su quello strano animale che si era istituito suo protettore e che tutte le sue relazioni avevano visto, toccato, accarezzato, don Bosco si scusava e rispondeva sbiascicando: “ Dire che era un Angelo chi farebbe ridere. Ma non si può dire nondimeno che fosse un cane come gli altri”. Laddove il peccato abbonda, la grazia sovrabbonda, si afferma volentieri. Il contrario è ugualmente vero tanto è impossibile a Satana sopportare i luoghi dove la santità si diffonde. Torino è una di queste città di contrasti dove, in risposta alla presenza del Sudario di Cristo ed alla venerazione da cui è contornato, le diavolerie si scatenano. Ancora oggi, è una delle città d’Europa dove gli esorcisti hanno più lavoro….
Nel 1850, a Torino vi era una forte presenza di una setta protestante, quella dei Valdesi, che risaliva al XI secolo. La recente libertà dei culti aveva dato a questo gruppo un nuovo slancio, che si esercitava soprattutto negli ambienti economicamente sfavoriti ed in mezzo ai fanciulli abbandonati, i piccoli delinquenti, i giovani lavoratori lasciati a se stessi. Erano precisamente questi ragazzi che erano oggetto della costante sollecitudine di don Bosco. I Valdesi non tardarono a trovare che il sacerdote cacciava sulle loro terre. Essi ne furono ampiamente convinti quando un giovane, che era stato nell’oratorio di don Bosco, e divenuto loro adepto, sfuggì loro. Don Bosco apprese in effetti che il ragazzo era caduto ammalato e che la sua vita era in pericolo. Egli sapeva anche che aveva abiurato il cattolicesimo del suo battesimo sotto l’influenza dei membri della setta; questi avevano preso grande cura di allontanarlo dalle sue antiche frequentazioni per meglio legarlo a loro. Don Giovanni Bosco non era uomo da abbandonare uno dei “suoi ragazzi” così facilmente. Una sera, senza essere, e per causa, chiamato al capezzale del malato, il sacerdote si reca a casa sua e trova il pastore valdese già installato da padrone nel posto. Furioso da questa intrusione, intima all’istante a don Bosco di lasciare i luoghi dove non ha più nulla da fare. Ma il movimento di gioia del ragazzo vedendolo entrare non è sfuggito al sacerdote. Imperturbabile, egli risponde che se ne andrà se quello che egli è venuto a salutare glielo chiede. La risposta fu subito: “ Don Bosco, restate, ve ne prego, restate!”. L’agonizzante si mise a parlare, a spiegare come era caduto tra le grinfie della setta, e come, separato da tutti i suoi vicini, gli era presto divenuto impossibile sfuggire all’influenza dei Valdesi. Egli singhiozza, stringendo la mano del sacerdote: “ Io sono nato cattolico, don Bosco ! Voglio morire cattolico!”. A questa dichiarazione, don Bosco mise il pastore alla porta e si affretta a trasportare il ragazzo in una casa sicura. I Valdesi non gli perdoneranno questo salvataggio spirituale in articulo mortis. Spesso, il sacerdote è obbligato di uscire la notte e di rientrare più tardi. Il locale dove ha installato le sue fondazioni, un vecchio capannone, la casa Pinardi, è situato nei sobborghi torinesi. Il quartiere è periferico, marginale e deserto. Più di una volta, don Bosco è stato obbligato di fare appello a tutto il suo coraggio per avventurarvisi solo. A diverse riprese, egli è stato vittima di aggressioni da parte degli evangelici; essi hanno anche tentato di avvelenarlo con un bicchiere di vino dopo averlo attirato in un posto isolato, sotto il pretesto di dare l’estrema unzione ad una moribonda ... don Bosco, prudente, sportivo e capace di dare vigorosi pugni, si è sempre tratto dai guai senza danno. Egli prende pertanto l’abitudine di farsi scortare da alcuni dei ragazzi dell’oratorio. Ora, una sera del novembre 1854, piovoso e nebbioso, don Bosco rientra solo a casa Pinardi. Mai il cammino gli è sembrato così inquietante. Egli crede di vedere ombre minacciose dietro ogni albero, ogni ramo, ogni muro in rovina. Quando ad un tratto, un enorme cane, uscito da chissà dove, si piazza davanti a lui. E’ una bestia gigantesca, un molosso terrificante, dal pelo grigio scuro. L’animale è così impressionante che don Bosco si ferma di netto, il respiro bloccato, mezzo morto di paura…. Ma il cane lo guarda con grandi occhi dolci, agita la coda e viene finalmente a sdraiarsi ai piedi del sacerdote leccandogli le dita. Ad iniziare da quella sera, il cane, presto battezzato Grigio, diventa il familiare di don Bosco. Don Giovanni crede dapprima che si tratti del cane da guardia di un vicino o di un contadino dei dintorni, che si sarebbe salvato. Ma tutte le sue ricerche sono vane: nessuno nei dintorni ha mai visto questo animale. D’altronde, Grigio è di umore ondivago. Egli va e viene all’improvviso, senza che nessuno sappia quello che fa in quest’intervallo. A qualche tempo da questo, don Bosco è di nuovo fuori la sera, tardi e solo. Dopo un momento, egli si inquieta: due uomini lo precedono, voltandosi spesso, come per verificare che egli è là, rallentando quando egli rallenta, fermandosi quando egli si ferma. Preso dal panico, don Bosco vuole ritornare sui suoi passi, verso la relativa sicurezza delle strade illuminate ed il possibile soccorso dei passanti. Egli cerca di correre. Purtroppo, fin dal 1846 egli ha contratto una polmonite per la quale ha rischiato di morire, don Bosco si piega come forza l’andatura. Egli è incapace di andare più lontano. I due uomini si sono messi al suo inseguimento, lo hanno raggiunto. Gli gettano un vecchio sacco di tela sulla testa, accecandolo. Don Giovanni si dibatte debolmente, persuaso che stanno per assassinarlo. Ed è certamente quello che accadrebbe se, in quell’istante, ottanta chili di muscoli, di pelo e di denti non si abbattesse sul dorso dei due aggressori: Grigio, furioso, selvaggio, che abbaia come un pazzo e morde come una muta di cani ... Gli omicidi fuggono. Aggressioni di questo genere, ve ne saranno altre. Ogni volta, Grigio, compare dal nulla, metterà in fuga i malfattori, anche armati. Nell’intervallo, nessuno lo vedrà per Torino od ai bordi di casa Pinardi. Quando accadrà di entrarvi, il cane sarà dolce come un agnello coi bambini, si lascerà tirare la coda e le orecchie, ma, cosa straordinaria trattandosi di un cane, mai Grigio, accetterà il minimo boccone. Grigio non mangiava mai ... In altre occasioni, don Bosco, che si apprestava ad uscire, lo troverà sdraiato di traverso sulla soglia, vietandogli il passaggio. Egli apprenderà a rispettare gli avvertimenti dello strano animale. E se ne troverà bene. Questa protezione durò abbastanza perché gli aggressori si stancassero. Da quel momento, Grigio sparì altrettanto misteriosamente come era entrato nella vita di don Bosco. Grigio era un cane come gli altri? Il seguito della storia non lascia affatto posto ad ipotesi razionali... Nel 1864, don Bosco, che non aveva rivisto Grigio da quasi dieci anni (sono lunghi, dieci anni, nella vita di un cane ...), si recava a casa di amici. Egli si perse. Improvvisamente, un grande colpo di lingua rasposa sulle dita gli fece abbassare gli occhi: era Grigio che, da parte sua, conosceva perfettamente la strada. Egli accompagnò don Bosco fino alla porta dei suoi amici, e s ne andò. Passarono altri diciannove anni. Una sera, don Bosco si perse nel quartiere di Bordighera. Era nel 1883. Il sacerdote non ebbe neanche il tempo di allarmarsi: Grigio era là, festeggiante, contento, affettuoso, senza un pelo bianco ed il senso dell’orientamento così sicuro come tutte le altre volte. Egli riportò don Giovanni a buon fine. Facevano trentadue anni che era uscito la prima volta vicino al suo padrone ... Stupefacente longevità ... Il cardinale Tarciso Bertone, salesiano e già segretario di stato del Vaticano, nel suo libro autobiografico intitolato “ I miei Papi” edito dalla LDC nel 2018 parla del cane grigio quando sotto il pontificato di Giovanni XXIII l’urna di don Bosco arrivò a Roma e descrive una sua esperienza: “ Giovanni XXIII ebbe il merito e anche l’onore di inaugurare a Roma il tempio dedicato a don Bosco a Cinecittà. Si decise in quella occasione di far venire a Roma l’urna di don Bosco e di presentarla alla venerazione insieme all’urna di San Pio X che tornava da Venezia, dove era stata offerta alla devozione dei fedeli. Le due urne si incontrano a Roma tra stazione Termini e Vaticano. Don Bosco rimase a Roma dal 30 aprile circa al 12 maggio 1959. Il 1° maggio il santo ricevette l’omaggio dei fedeli al nuovo tempio di Cinecittà. Il 2° maggio vi fu la consacrazione del tempio, presieduta dal Cardinale Benedetto Aloisi Masella. Il 3 maggio ebbe luogo la visita di Giovanni XXIII sulla spianata di Cinecittà davanti ad oltre centomila persone. L’11 maggio l’urna fu trasferita alla Basilica del Sacro Cuore, costruita da Don Bosco in via Marsala ( vicino alla stazione Termini). Il 12 maggio, dopo aver atteso l’arrivo dell’urna di San Pio X alla stazione Termini, le due urne furono recate processionalmente attraverso le vie della città in piazza San Pietro per l’omaggio di Giovanni XXIII e di una moltitudine di devoti. Il 13 maggio, dopo una sosta nella Basilica di San Pietro e una breve celebrazione in suo onore, l’urna partì per il ritorno a Torino. Conosciamo dalla storia di san Giovanni Bosco la presenza di un cane misterioso, il famoso “ Cane grigio” che interveniva ogni tanto per proteggerlo dalle aggressioni. Ebbene, l’urna di don Bosco fu protagonista di un episodio molto interessante, e vale la pena di ascoltare in proposito il racconto del signor Renato Celato, anziano salesiano ancora vivente che dovette rispondere tante volte alla domanda: “ Che cosa ricorda del misterioso cane che vide accanto all’urna di don Bosco?”. Egli racconta: “ Ho potuto vedere, toccare, accarezzare quel misterioso cane - dopo l’inaugurazione del grande tempio di Cinecittà, eravamo di ritorno da Roma con l’urna di don Bosco. L’urna era rimasta a Roma vari giorni. Era venuto ad onorarla anche papa Giovanni XXIII. L’urna di don Bosco rimase due giorni in San Pietro, intanto che si facevano le pratiche burocratiche per il viaggio di ritorno a Torino. Siamo partiti da Roma nel tardo pomeriggio. Cominciava a farsi buio. Dovevamo arrivare a La Spezia alle quattro del mattino, sennonché eravamo stanchi e l’Economo Generale, don Fedele Giraudi, ci consigliò di fermarci un paio d’ore a Livorno dai Salesiani. Arrivammo a La Spezia verso le sette invece che alle quattro. Il confratello sacrista, signor Bodrato, aveva aperto le porte della Chiesa alle quattro e mezzo e aveva visto questo cane accovacciato davanti alla porta e gli aveva rifilato un calcio per mandarlo via. Senza reagire, il cane si era ritirato in disparte ed aveva aspettato l’arrivo dell’urna. Quando siamo arrivati, abbiamo portato l’urna in chiesa e l’abbiamo appoggiata su un bancone dei falegnami; il cane ci ha seguiti e si è accoccolato sotto l’urna. Lì per lì nessuno ci ha badato. Poi quando incominciò ad arrivare la gente e iniziarono le Messe e le funzioni, il direttore si preoccupò e disse ai carabinieri: “ Mandate via questa bestia che sta sotto l’urna!”. Ma non ci riuscirono. Il cane digrignava i denti e sembrava arrabbiato. Rimase là fino a mezzogiorno. A quell’ora chiusero la chiesa. Il cane uscì e cominciò a gironzolare tra i ragazzi in cortile. I ragazzi naturalmente erano felici di averlo in mezzo a loro: lo accarezzavano, gli tiravano la coda. Mi unii anch’io a loro. Andammo a pranzo. C’erano l’Ispettore, tutti i direttori dell’Ispettoria, i novizi e i confratelli che erano riusciti ad entrare. La sala da pranzo era al piano superiore. Durante il pranzo vedemmo questo cane che tranquillamente spinse la porta con le zampe anteriori ed entrò. Cominciò a gironzolare tra le tavole. Don Salvatore Puddu, segretario del Consiglio Superiore, gli sferrò un calcio, ma il cane non si scompose e continuò a passeggiare. Gli offrirono pane, prosciutto, salame. Annusava in segno di gradimento, ma non toccò niente. Rimase lì per tutto il pranzo. Poco prima della preghiera finale, aprì di nuovo la porta da solo ed uscì. Verso le quattordici, tornammo in chiesa per ripartire, perché il viaggio era ancora lungo.. il cane era di nuovo accovacciato sotto l’urna. Come aveva fatto ad entrare? La chiesa aveva le porte sbarrate, com’è facile immaginare. Caricammo la pesantissima urna sul furgone e il cane era ancora lì in mezzo a noi. Ho lasciato in archivio una fotografia che documentava quel momento. Partimmo per Genova Sampierdarena, passando per il valico del Turchino. Non c’era l’autostrada allora. Don Giraudi, che era in macchina con me, mi diceva ogni tanto: “ Stà attento, guarda un po’ se c’è il cane!”. C’era. Sempre dietro il nostro furgone, anche in città. Lo vidi ancora fino al terzo tornante della salita. Poi scomparve”. |