Il regista Federico Fellini e gli Angeli |
Federico Fellini è stato certamente il più celebre, il più osannato e premiato dei registi italiani. Nasce in una famiglia piccolo – borghese (il padre, Urbano, è un commerciante e la madre, Ida Barbini, casalinga) e, trascorre un’infanzia “normale” . Abile vignettista umoristico, nel gennaio del 1939 si trasferisce a Roma dove, invece di frequentare l’università, inizia una carriera di giornalista collaborando con parecchi settimanali fra i quali il bisettimanale umoristico “Marc’Aurelio”, per il quale inventa rubriche e personaggi vari. Introdotto in radio e nel mondo del cinema da Maccari e Steno, collabora a varie sceneggiature. Scampato al richiamo alle armi per una fortuita coincidenza, nell’ottobre del 1943 sposa Giulietta Masina e per superare le difficoltà finanziarie del periodo di guerra vende ritratti umoristici. Nel 1945 viene inviato da Roberto. Rossellini a collaborare alla sceneggiatura di Roma città aperta (1945), in particolare per lo sviluppo del personaggio di Don Pietro, ... ... interpretato da Aldo. Fabrizi, di cui è amico personale. E’ proprio Rossellini che lo instrada definitivamente verso il cinema: collabora alla sceneggiatura di Paisà (1946), sostituendo Rossellini alla regia nell’episodio fiorentino; poi scrive il soggetto e la sceneggiatura di Il Miracolo, secondo episodio di L’amore (1947), per il quale è anche attore e aiuto – regista, così come lo è Francesco giullare di Dio (1949). Nel frattempo, insieme a T. Pinelli, scrive varie sceneggiature per Lattuada, Germi, Comencini e altri. Nel 1950, insieme a Lattuada, dirige Luci del varietà, racconto delle illusioni e delusioni professionali e amorose del capocomico di una “scalcagnata” compagnia di avanspettacolo. Il vero esordio nella regia avviene nel 1952 con Lo sceicco bianco, storia di una ingenua giovane sposina che, durante il viaggio di nozze, va a cercare il suo idolo dei fotoromanzi per scoprire che si tratta un uomo rozzo e volgare . Accolto molto tiepidamente dalla critica alla Mostra di Venezia e ancor più freddamente dal pubblico, sarà molto rivalutato nel tempo. I Vitelloni (1953, Leone d’argento a Venezia), affresco generazionale su un gruppo di giovani affetti dal complesso di Peter Pan e sul loro disagio nell’entrare nella maturità. Subito dopo gira Un’agenzia matrimoniale, episodio del film collettivo Amore in città (1953) prodotto da Zavattini, e l’anno successivo (1954) vince nuovamente il Leone d’argento con La Strada, favola commovente centrata sulla figura di Gelsomina interpretata da Giulietta Masina, giovane donna semplice, ingenua e umile, non intelligente ma ricca di amore e di poesia, che riesce a spezzare la corazza di fredda animalità del rozzo Zampanò interpretato da Antony Quinn solo con la sua morte. Tra gli altri premi, il film vince nel 1956 l’Oscar come miglior film straniero e Gelsomina diventa l’emblema di tutti i personaggi umili, ingenui e di buon cuore che affollano i suoi primi film. Abbandonato il soggetto di Moraldo in città dirige Il bidone (1955) che viene pressoché ignorato dalla critica e dal pubblico, ma ritorna subito al grande successo con Le notti di Cabiria (1957), intenso ritratto della prostituta “dal cuore d’oro” (già apparsa con lo stesso nome e le stesse vesti in Lo sceicco bianco), che vale alla Masina il premio quale migliore attrice protagonista al Festival di Cannes e a Fellini il secondo Oscar. Con questo film si esaurisce la prima fase della sua poetica – legata alla caduta delle illusioni e al disvelamento della personalità nascosta dei personaggi – e del suo stile, ancora iconograficamente influenzato da echi del neorealismo. Nel 1959 inizia le riprese di La dolce vita, pietra miliare del cinema nella sua filmografia e nella storia del passato. Affresco soggettivo – dipinto attraverso gli occhi del suo alter ego Marcello (Mastroianni), giornalista di cronaca rosa – della società alto borghese romana nel momento di massimo splendore di Cinecittà, vince il premio come miglior film a Cannes nel 1960 ( e successivamente il New York Films Critics Award e un Oscar per i costumi di Gherardi), ma già fin dall’anteprima suscita un enorme scandalo e la polemica arriva fino in parlamento, nel 1962 gira Le tentazioni del dottor Antonio, episodio di Boccaccio ’70. Nel frattempo, incontra E. Bernhard, un analista che lo introduce alla psicanalisi junghiana che avrà una grande influenza sul suo successivo sviluppo culturale e artistico. Il primo risultato di questi studi è Otto e mezzo (1963), film rivoluzionario nella struttura narrativa che mischia realtà e sogno, fantasie visive e finzioni di messa in scena, casting e riprese sul set (il finale) e che, nelle sue parole, è “ un viaggio all’interno della crisi dell’uomo contemporaneo, il quale non può fare a meno di entrare fino in fondo nella sua confusione attuale, confrontandosi con tutte le parti di sé stesso e con tutti i personaggi, i fantasmi, e i mostri dentro e fuori di lui, per arrivare ad accettarli, ad amarli, ad assegnare a ognuno il proprio posto e la propria funzione, fino a unificarli in una sintesi creativa che rappresenta il nuovo equilibrio raggiunto dalla propria personalità in evoluzione”. Il film viene accolto entusiasticamente dalla critica, raccoglie premi in tutto il mondo (sette Nastri d’argento, primo premio al festival di Mosca, Oscar come miglior film straniero e per i costumi ecc.) e F. viene accostato all’opera di Joyce, Musil Kakfa e Pirandello. Meno risolto Giulietta degli spiriti (1965), sorta di versione al femminile di Otto e mezzo, apprezzato per i suoi valori formali e premiato negli Stati Uniti, ma accolto da critiche contrastanti in Italia. Seguono alcuni anni di crisi, funestati dalla rottura dell’amicizia con Flaiano, Pinelli, Gherardi e Rizzoli, dalla scomparsa del suo analista E. Bernhard e del suo direttore della fotografia di fiducia G. di Venanzo, nonché da una malattia che lo conduce in ospedale. Abbandonato il soggetto di Il viaggio di Mastorna, nel 1968 dirige Toby Dammit, episodio di Tre passi nel delirio e sua unica escursione nel genere horror, e Block notes di un regista, uno special televisivo per la NBC. Nel 1969 presenta Fellini Satyricon, film onirico e visionario quant’altri mai, costruito su brandelli di narrazione intessuti di spazi vuoti come l’originale racconto di Petronio, che diventa un cult negli Stati Uniti, dove Fellini ottiene una nomination come migliore regista, e in Giappone, dove il film tiene cartellone di una sala per quasi quattro anni. Dopo I clowns (1970), cortometraggio – inchiesta sui comici circensi mitizzati fin dall’infanzia, dirige Roma (1972) in cui mischia (falso) documentario d’attualità e memorie fantasiose del suo arrivo nella capitale (riprese dell’abbandonato progetto di Moraldo in città). Alla fine del 1973 esce Amarcord rivisitazione onirico – nostalgica della sua prima giovinezza che impone personaggi indimenticabili come la Gradisca, la tabaccai dal seno straripante, e che, con la levità del taglio ironico, riconcilia l’autore con tutta la critica e i grande pubblico, facendo incetta di premi internazionali, fra i quali un altro Oscar come miglior film straniero. Ormai leggenda vivente, decide di realizzare un film su un personaggio che dichiara di non amare. Il risultato è Il Casanova di Federcio Fellini (1976), film soggettivo e personale, intriso di simboli dall’ambigua pluralità semantica e di voluta e internazionale freddezza nel tratteggio del personaggio, che riscuote enorme successo in Giappone mentre D. Donati vince l’Oscar per i costumi. Nel 1978 realizza Prova d’orchestra, film per la televisione, un’allegoria del marasma politico – sociale dell’Italia contemporanea, centrato su uno sciopero di orchestrali che alla fine vengono violentemente richiamati all’ordine da un eventi inaspettato e sono quindi pronti a sottomettersi alla volontà di un direttore d’orchestra dai modi dittatoriali. La confusione e il suo assordante rumore sono al centro anche di La città delle donne (1979), in cui il regista confessa tutto il suo terrore per gli eccessi del movimento femminista, ma cerca anche di fare il punto sui suoi problemi irrisolti nei confronti della figura femminile. Dopo E la nave va (1983), Oscar per le scenografie di D. Ferretti, in cui Fellini sembra celebrare gli ultimi fasti del melodramma lirico e della declinante borghesia elitaria del primo Novecento, nel 1985 viene premiato con un Leone d’oro alla carriere e si lascia convincere a girare alcun spot pubblicitari (Campari e Barilla). Subito dopo però dirige Ginger e Fred (1986), rivisitazione nostalgica delle più significative icone del cinema (Masina e Mastroianni), in cui non fa mistero del suo disprezzo per l’invadenza fastidiosa della pubblicità e l’insulso minestrone dei programmi “contenitori” della televisione. L’anno successivo riceve una laurea honoris causa dall’Università di Urbino e presenta Intervista – film autobiografico – confessionale e metalinguistico, in cui parla di sé stesso, del cinema che fu e di molto altro, mischiando, al solito, immagini della realtà e messe in scena di un passato autobiografico mitizzato e ironizzato al contempo. Nel 1990 esce La voce della luna, film di grande poesia e di suggestiva figurazione di Roberto Benigni e Paolo Villaggio per giustapporre la irrazionale e folle gioia di vivere a una vena di scettico pessimismo. Nel marzo del 1993 è invitato a Hollywood per ritirare un Oscar alla carriera, il suo quinto; il 3 agosto viene colto da ictus celebrale mentre si trova al Grand Hotel di Rimini. Curato a Ferrara e Rimini, sembra totalmente ristabilito, ma viene colto da un nuovo attacco a Roma, dove muore il 31 ottobre. Il regista Federico Fellini, prima della sua scomparsa, fu protagonista di un incontro probabilmente con una figura angelica. L’episodio, riportato su alcuni giornali, fu narrato dopo la sua morte dal suo amico e sceneggiatore G. Angelucci. Il giorno che il famoso regista restò vittima dell’ictus cerebrale, aveva pranzato regolarmente e poi si era ritirato nella sua suite che occupava abitualmente al Gran Hotel Rimini. Quando fu nella sua stanza, sedette sul letto e cercò di sfilarsi la stretta calza elastica, che era costretto a portare da quando aveva subito un’operazione al cervello per un aneurisma. Non si sa se per lo sforzo o perché colto da malore, cadde battendo la testa sullo spigolo del comodino accanto al letto. Finì riverso sul pavimento, dove restò parecchio tempo in uno stato di semi coscienza. Cercò di arrivare al telefono per chiedere aiuto, ma era troppo lontano. Così egli descrisse quel brutto momento: “Avevo perduto la sensibilità di una mano ed ero incapace di fare qualunque movimento. Mi lamentavo, chiedevo soccorso, speravo che qualcuno mi venisse a soccorrere”. Ma non c’era nessuno ad aiutarlo. Ad un certo punto il regista sentì la voce di un bambino nel corridoio. Non riuscì a capire cosa mai dicesse, ma comprese che parlava inglese. Cercò di far rumore, di attirare in qualche modo la sua attenzione, ma non riusciva a muoversi. Provò a chiedere aiuto, ma benché riuscisse in qualche modo a muovere le labbra, dalla sua bocca non uscì alcun suono. Tra poco – pensò il regista – sarebbe andato via ed egli avrebbe perso l’unica occasione di essere salvato. Fu allora che accadde una cosa sorprendente. Benché non l’avesse chiamato nessuno, la porta si spalancò di colpo ed il bambino entrò nella sua stanza. “Aiutami, ho bisogno d’aiuto – riuscì a dire il regista con un filo di voce – va a chiamare il portiere.” Il bambino lo fissò immobile per un lungo istante. Fellini temette che non avesse capito le sue parole. Ma fu solo un attimo di esitazione, poi il piccolo si girò e corse via veloce. Pochi minuti dopo il regista fu soccorso dal personale dell’albergo. Anche quella volta si salvò. Quando le condizioni di salute di Fellini si stabilizzarono, l’amico Angelucci domandò del bambino che aveva trovato il regista sul pavimento. Nessuno dell’albergo ne sapeva niente. Consultarono i registri, ma quel bambino sembrava non essere mai stato cliente dell’albergo. Era come non fosse mai esistito. Eppure Federico Fellini era sicuro che fosse stato lui a salvarlo, ne fornì persino una descrizione dettagliata: “Aveva un vestito alla marinara, io berretto rosso, le scarpe di vernice nera, un calzettone su e un giù, sulle gambe magre”. Ricordava che aveva in mano un grosso cono gelato che continuare a leccare meccanicamente mentre lo guardava e cercava di capire le sue parole incomprensibili”. Chi aveva salvato Fellini? Da dove era venuto quel bambino che nessuno aveva mai visto o incontrato? Era stato un angelo? Don Marcello Stanzione |
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